Alan Sorrenti, i 40 anni di ‘Figli delle stelle’: ‘All’epoca si parlò di tradimento, oggi non avrebbe senso’
di Rockol.it
Alan Sorrenti festeggia i quarant’anni di “Figli delle stelle”, l’album di maggiore successo della sua carriera, quello che nel 1977 traghettò il cantautore italo-gallese dalle sperimentazioni prog-rock ai suoni della disco music e del funk. Lo fa con un’edizione speciale dell’album, in uscita il prossimo 3 novembre in due versioni: doppio cd contenente, oltre l’album originale rimasterizzato, anche un disco di tracce bonus (brani strumentali, remix, e una versione archi e piano di “Figli delle stelle”); e vinile 180 grammi.
In questa intervista Alan Sorrenti racconta la genesi dell’album del 1977, il suo passaggio dal prog alla disco music e il contenuto della nuova edizione per il quarantennale.
Tra le tracce bonus di questa riedizione, oltre a brani strumentali e remix, c’è una versione archi e piano di “Figli delle stelle”: come è nata questa rivisitazione?
Qualche anno fa ho partecipato ad un evento di beneficenza all’Auditorium Parco della Musica di Roma e ad accompagnare le esibizioni dei vari ospiti c’era un’orchestra. Il direttore, Paolo Vivaldi, aveva provato a scrivere una versione orchestrale di “Figli delle stelle” e mi aveva proposto di cantarla dal vivo insieme all’orchestra. In quell’occasione, però, non avevamo registrato nulla. Quando ho cominciato a pensare a questo progetto, mi sono ricordato di quella versione: ho contattato il Maestro Vivaldi e ho scoperto che conservava ancora i file. Così, quest’estate ci siamo trovati a Roma e abbiamo registrato questa versione sinfonica di “Figli delle stelle”. Secondo me riesce ad evidenziare il testo della canzone, che è stato un po’ nascosto dal ritmo: dentro, in realtà, ha una certa malinconia.
C’è anche la rilettura di “Figli delle stelle” che i Deproducers, il collettivo formato da Vittorio Cosma, Max Casacci, Gianni Maroccolo e Riccardo Sinigallia, hanno realizzato nel 2012 per il loro album “Planetario”: è una versione in stile new age. Perché ha voluto inserirla nel doppio cd?
Faceva parte di un progetto in cui era coinvolto anche il mio editore, un disco di musiche per conferenze scientifiche dedicato all’astronomia intitolato “Planetario”. La scienza dice che, in qualche modo, noi uomini abbiamo gli stessi elementi delle stelle, perché deriviamo dalla stessa materia nata con il big bang: “Figli delle stelle”, insomma. Quando l’ho scritta, non lo sapevo mica. Loro hanno adattato il testo al progetto e ne hanno realizzato una versione semplice, asciutta: ho voluto inserirla in questo disco perché ci stava bene, così come ci stava bene quella sinfonica.
“Figli delle stelle” fu un album importante, ma il punto di svolta della tua carriera fu rappresentato da un 45 giri che uscì poco prima di quel disco, “Dicitencello vuje”. Dopo aver pubblicato una serie di dischi prog rock e sperimentali, avevi cominciato a cantare pezzi più melodici. I “puristi” ti accusarono di esserti venduto alla commercialità: quale fu la tua reazione di fronte alle critiche?
Quando leggevo le critiche pensavo che bisognava essere nelle mie scarpe per capire la trasformazione che stavo subendo. “Dicitencello vuje” la rifeci in versione quasi psichedelica: non volevo certo fermarmi al prog, ma esplorare anche altri mondi musicali. All’epoca si parlò di un cambio di stile, di “tradimento”. Oggi un discorso del genere non avrebbe senso.
Hai parlato di “trasformazione”: in che senso?
Avevo cominciato a sentire la necessità di staccarmi dal prog: per la musica italiana era stata una rivoluzione, ma era diventato troppo politicizzato e aveva cominciato a starmi stretto. Inoltre, mi ero reso conto che a forza di esplorare la melodia e la vocalità avevo messo da parte il ritmo. All’epoca studiavo etnomusicologia al Dams: volevo andare in Africa a studiare i suoni di quel continente. E in Africa mi ero ritrovato coinvolto in situazioni tribali bellissime, travolto dal ritmo. Nacque così un album di transizione tra il prog e “Figli delle stelle”, “Sienteme, it’s time to land”: era un album fusion.
Poi volasti a Los Angeles, dove dall’incontro con Jay Graydon, David Hungate e David Foster nacque “Figli delle stelle”.
Fu il risultato di quel viaggio cominciato in Africa: il passaggio al funky-pop fu inevitabile, a quel punto. Andai a Los Angeles: all’epoca Graydon lavorava con Al Jarreau e i Manhattan Transfer. Da parte loro c’era molto entusiasmo: non avevano mai lavorato con un cantante italiano ed erano curiosi. Da Jay Graydon, tra le altre cose, imparai anche le tecniche di recording studio: negli Stati Uniti c’è una differenza importante tra un performing artist e un recording artist…
A proposito di critiche dei puristi. Battiato, che come te arrivava da diversi dischi di sperimentazioni fra prog e underground e che alla fine degli anni ’70 aveva cominciato a fare musica “pop” (o meta-pop), in “Bandiera bianca” cantò: “Siamo figli delle stelle pronipoti di sua maestà il denaro”. In molti interpretarono quel verso come un riferimento al suo cambiamento di rotta artistica: tu cosa pensasti, ascoltandolo?
La presi con ironia, in modo divertente. Con Battiato, tra l’altro, ci eravamo incontrati da giovanissimi nell’unico negozio a Roma che aveva il VCS3, il sintetizzatore usato dai Pink Floyd.
Ti aspettavi un successo del genere da “Figli delle stelle”, considerando tutto quello che avevi fatto prima?
No, quello che è successo con “Figli delle stelle” non era pronosticabile: la situazione andò fuori controllo.
Per l’uscita del disco, tra l’altro, cambiasti anche look: ti tagliarono i capelli e ti fecero indossare i completi bianchi firmati Versace. Rockol ha recentemente intervistato lo stylist che ti affiancò in quel periodo, Cesare Zucca, e ha raccontato che i capi della EMI bocciarono il suo progetto: “Troppo disco, pare un frocio”. Secondo te fu anche merito del look se “Figli delle stelle” andò al primo posto della classifica?
Cesare Zucca fu fondamentale nella costruzione del personaggio: anche lui vedeva delle cose nuove e a suo modo rese bene il senso di novità. Considerando l’epoca, fu anche molto coraggioso. Era un momento di costume importante, quello. David Bowie usciva con “Heroes”, io facevo uno showcase a Milano con “Figli delle stelle” e Grace Jones reinterpretava “La vie en rose”. Eravamo personaggi che vivevano una diversità e che volevano trasmettere questo senso di cambiamento. L’impatto fu grande: e infatti dopo arrivarono Renato Zero e tutti gli altri.
Il tuo ultimo album in studio risale al 2003: uscirà altro materiale, oltre a questa riedizione di “Figli delle stelle”?
Poco tempo fa camminavo per strada e sentivo un gruppo di ragazzi cantare “Figli delle stelle”: sono passato lì vicino e non mi hanno nemmeno riconosciuto. Conoscono la canzone, ma non sanno chi sono. Così ho deciso di lavorare a un’operazione di ricostruzione delle fasi principali della mia musica, sperando che i giovani possano in questo modo conoscermi. A marzo uscirà un cofanetto dedicato ai miei dischi prog: raccogliendo il materiale sono uscite fuori cose che neanche ricordavo di aver fatto, come la versione in inglese di “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto”. Ad ottobre, poi, uscirà un altro cofanetto, stavolta dedicato ai dischi “pop”. Ricostruendo quello che ho già fatto, inserirò anche il nuovo: sarà materiale particolare.